Bari calcio: la libidine è finita

Editoriale su Barilive 19/4/2010
Il San Nicola è sempre più allo sfascio  
Bari calcio: la libidine è finita 
Matarrése sembra scocciato ma il "rischio" Europa è stato comunque evitato.
Insomma è la solita Bari da mezza classifica, come la Società che la esprime 

E che nessuno, adesso, parli di complotti, biscotti e che piangere paga. Il Napoli, pur senza strafare, ha vinto meritatamente. Un Bari col freno tirato e privo di qualsiasi stimolo ha solo timidamente fatto il solletico alla squadra di Mazzarri che con due tiri e mezzo in porta e un possesso di palla superiore, ha portato via l’intera posta avanzando di classifica per alimentare la fiamma dell’Europa. A differenza del Bari che, pur essendoci andata vicina, ad un tratto del suo torneo ha tirato i remi in barca, non si sa bene se a causa delle numerose defezioni o per strategia aziendalistica.

Una coltre di nubi, fortunatamente non quella del vulcano islandese impronunciabile quasi come la mezzala ungherese del Bari, copriva il cielo barese - astri inclusi - fino alla linea curva di un illusorio orizzonte europeo ormai lontano ma pur sempre rassicurante per una salvezza acquisita da tempo, un’ellissi calcistica sorda e nascosta dietro il telone ormai a brandelli del San Nicola quasi volesse ribadire che i tempi della famosa libidine venturiana era finita da tempo. E nemmeno l’unico imperativo, ovvero vendicare il risultato dell’andata, è stato coniugato: i ventimila accorsi allo stadio son rimasti ancora una volta delusi intrappolati dal filtro dell' illusione. Fortuna che ci hanno pensato le notizie appena battute, durante la partita, a farci strappare un sorriso con la liberazione dei tre medici di Emergency, per la disperazione, invece, di Minzolini.

Analizzando la partita, tuttavia, sembra essere venuto meno il sospetto per cui il Bari abbia rinunciato ad andare in Europa. Certo, i primi scricchiolii del freno a mano si son sentiti nitidi dopo la partita con la Sampdoria ben nascosti come gli astri ricoperti ieri dal cielo plumbeo che corrono come il Sagittario e che tira frecce bugiarde qua e la. Ma ieri il Bari ha fatto quel che ha potuto nonostante l’impegno di tutti, e quantunque abbia subìto solo tre tiri in porta di cui due andati a segno, non ha combinato gran che dalle parti di De Sanctis, eccezion fatta per quell’occasione gol capitata tra i piedi di Sforzini dopo il pareggio di Almiron il cui innesto ha riaperto la partita dando linfa nuova ad un gioco apparso abulico e privo di qualsiasi illuminazione anche perché Mazzarri ha messo la museruola su Alvarez.
Bari e Napoli divisi non solo dalla frana di Montaguto, le cui conseguenze sono il simbolo di un’Italia che non vuol crescere e che la vede divisa perennemente in due ma anche e soprattutto dagli stimoli oltre che certe individualità e dal peso specifico delle assenze di ognuna.

Potremmo riempire pagine per cercarne le cause ma ci limitiamo ad evidenziarne qualcuna, sicuramente quelle certe senza entrare in merito sulle presunte strategie dirigenziali che a detta di “radio tifo” sarebbero orientate verso la precisa volontà di non tentare nemmeno l’assalto all’Europa: sull’opportunità di ingaggiare Donati, centrocampista brillante ma solo per 4 o 5 partite consecutive (altrimenti adesso sarebbe rimasto al Milan) dopo di che diventa un giocatore fantasma a causa del noto mancato riposo, la società ci avrebbe dovuto pensare due volte. Donati ad inizio stagione ha fatto la differenza ma dopo è miseramente svanito, e su questo mi pare non ci siano dubbi. Poi gli infortuni: crediamo che quello di cui si è sentita maggiormente la mancanza sia stato quello di Kutuzov, vero e proprio perno di gioco. Senza le sue sponde, il suo saper mantenere il pallone e i suoi assist, il peso specifico del gioco è calato vertiginosamente e le conseguenze si son fatte sentire ancor più della mancanza di Ranocchia.
Poi i balbettanti infortuni di Rivas, Kamata e Almiron, la sacrosanta convocazione in Sud Africa di Bonucci che, pur giocando bene, si vede da un milione di chilometri che non è più lo stesso. Quindi i cosidetti rinforzi di gennaio: l’affare Castillo rimane ancora avvolto in un mistero. Non è possibile assicurarsi le prestazioni di un giocatore trentacinquenne, fermo da quasi due anni, per due milioni di euro. Qualcosa non ci convince anche perché il suo apporto, al momento, è pressoché nullo per non dire dannoso: eppure il periodo di ruggine dovrebbe essere terminato. Sestu, Pisano e Diamoutene idem. Non abbiamo ancora afferrato il motivo per cui ci si è orientati verso costoro piuttosto che su altri, ovviamente di caratura simile ma sicuramente, almeno, già pronti per giocare. I risultati si son visti. Per non parlare del mancato apporto di un tale Langella, super pagato da Matarrese e messo fuori squadra a causa dei noti motivi.

Bari meno brillante del primo scorcio del torneo, nonostante qualche bella e convincente vittoria ma lontano dal calcio “libidinoso” che tutta Italia ci invidiava, record vari andati ormai a farsi friggere e sconfitte consecutive a go-go. Tanto valeva far rimanere Greco e Antonelli. Non sapremo mai se c’è stata volontà nel tirare il freno a mano alla squadra come 9 baresi su 10 sono convinti anche se, si sa, le ragioni strategiche in una holding hanno la meglio. E Matarrese lo si può accusare di tutto fuorché di essere inabile alla gestione del suo impero. Peccato, però, che nel computo delle attività avrebbe potuto (e dovuto) inserire anche il bacino di utenza che non è secondo a nessuno. E quest’anno è stato dimostrato. Speriamo che l’anno prossimo, Perinetti o meno, ne voglia tenere conto nelle entrate previste. Infondo non è necessario essere abili economisti o laureati in economia e commercio per capire che un indotto come quello di Bari (stadio, tifosi, ricettività) è sinonimo di utile. E che nessuno da via Torrebella accusi i tifosi di scarsa continuità: a Milano, Roma e Torino si impostano squadre per vincere tutto, normale che gli abbonati superino i 40 mila. Da queste parti (e non solo a Bari ma in qualsiasi realtà calcistica che non può competere con le big), è altrettanto normale che i tifosi vivano di attese: se il prodotto funziona riempiono lo stadio, altrimenti si stanno a casa.

Ventura, al pari di Conte e Perinetti, lancia messaggi eloquenti come nemmeno Cicerone da Arpino li lanciava dai rostri del Foro romano ma, si sa, è un deja-vu. E se qualcuno alza la voce un motivo ci sarà. Il futuro societario in relazione al bacino di utenza intuìto da costoro, evidentemente, non rende giustizia. La verità è che si deve crescere tutti, città, tifoseria e società nel mostrare coraggio. E se per la città, vanitosamente appesa tra fatalismo e voglia perenne di riscatto sociale, tutto sommato ci siamo, nonostante gli atavici problemi di una normale e comune città metropolitana che “non produce” solo per timore di investire, per i tifosi, da sempre spaccati in due fazioni come i Guelfi Bianchi e Neri, è fondamentale capire che unirsi è importante. Fino a quando assisteremo alla scissione tra club organizzati da sempre vicini al vento societario e tifosi comuni, invece, passionali ma diffidenti dopo 30 anni vissuti leggendo Pirandello, in particolare, “Così è se vi pare”, difficilmente si potranno raggiungere traguardi ambiziosi. Il rischio è una duratura depressione calcistica. Insomma, per dirla breve, si rischia di rimanere un eterno e contraddittorio “Mègghie Paìse”.

Tra il visitare Lisbona o Barcellona e rivedere un greppe appenninico sassuolese o sentir l’odore della periferia padovana, l’anno prossimo con la possibile novità Cittadella, dove risuonano fra gli alberi fredde tramontane o caldi afosi tipicamente padani, preferiremmo visitare le prime città anche a costo di limitarci a raccogliere pietre, percorrere strade, annusare sapori portoghesi o catalani e raccogliere i ciuffi di parietaria attaccati ai muri iberici e siamo finanche pronti a seguire solo strisce di lumache che si trascinano nei loro gusci pur di lasciarci stupire, almeno per una volta nella vita, così come hanno fatto Vicenza, Udinese, Chievo, Atalanta e Ascoli (persino). E’ chiaro, Presidente?
Massimo Longo

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